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Le reali cause storiche e il velo di sovrastruttura

 

La filosofia tedesca moderna trovò la sua conclusione con Hegel e questo è il suo grande merito: tutto il mondo naturale, storico e spirituale venne presentato come un processo, cioè in un cambiamento continuo, uno sviluppo che non ha mai tregua. Da questo punto di vista, la storia dell’umanità non appariva più come un groviglio confuso di violenze insensate, tutte ugualmente condannabili davanti al tribunale della ragione filosofica. Il compito della filosofia diventava scoprire nell’apparente insensatezza della storia l’intima regolarità che la contraddistingue[1].

Anche il materialismo moderno, infatti, vede nella storia il processo di sviluppo dell’umanità ed è suo compito scoprirne le leggi; tuttavia, esso effettua anche un rovesciamento: anziché spiegare l’essere reale dell’uomo con la sua coscienza ideale, la si spiega con il suo essere reale. La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e lo scambio dei prodotti sono alla base di ogni ordinamento sociale, che in ogni società della storia la distribuzione dei prodotti e l’articolazione della società in classi si modella su ciò che si produce e sul modo in cui si produce[2]. Come già detto, le cause vere di ogni mutamento sociale non vanno ricercate nella filosofia, ma nell’economia. Il denaro è una merce, o, ancor meglio, un mezzo o facoltà: nella potenza del denaro si manifesta con la massima chiarezza l’indipendenza assunta dai rapporti di produzione e di scambio. La potenza obiettiva del denaro emerge chiaramente nelle crisi finanziarie: la crisi finanziaria consiste innanzitutto nel fatto che tutti i beni insieme vengono deprezzati di fronte al mezzo di scambio. La ricchezza della società appare come un’immensa raccolta di merci e la merce è prima di tutto un oggetto esterno, che per mezzo delle sue proprietà soddisfa bisogni umani di qualunque specie[3].

L’economia politica incomincia dalla merce, dal momento in cui dei prodotti sono scambiati con altri, sia da parte di individui sia da parte di una comunità. Il prodotto che viene scambiato è merce, ma è merce soltanto per il fatto che al prodotto si collega un rapporto tra due persone o comunità, il rapporto tra il produttore e il consumatore. L’economia non tratta di cose, ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi. Questi rapporti sono legati a delle cose che appaiono sotta forma di merci.

Considerando la merce sotto i suoi diversi aspetti, essa si presenta sotto i due significati di valore di uso e valore di scambio[4]. Il valore d’uso di una merce consiste nell’effettiva utilità di una merce per es. una bicicletta ha un certo valore d’uso che si calcola in base a differenti fattori quali la qualità dei materiali con cui è costituita e il tipo di consumo a cui è destinata, il valore d’uso effettivo (il consumo) può essere di diversi tipi es. come  mezzo di locomozione oppure come mezzo per essere più ecologici o ancora nel caso di una bicicletta particolarmente pregiata può avere il valore di status symbol o per un professionista mezzo per vincere una gara sportiva; il valore di scambio anch’esso è determinato da vari fattori quali la quantità di lavoro socialmente necessario per produrla, la qualità dei materiali e la determinazione del prezzo di una merce,  una bicicletta convertita in denaro che è un tipo speciale di merce, avrà un certo prezzo che è in genere proporzionale al valore d’uso ma non rigorosamente ad esempio una bicicletta antica magari può avere un valore d’uso pressoché nullo ma per un collezionista di biciclette antiche potrebbe avere un alto valore di scambio; il valore d’uso corrisponde al consumo della merce mentre il valore di scambio è il valore che serve alla sua produzione.  Il capitalista ottiene valore d’uso, valore di scambio e plusvalore (non tutto il lavoro prodotto dagli operai ritorna sotto forma di lavoro ma al salario viene tolto il lavoro che serve per la produzione del capitale costante e il plusvalore) ai lavoratori viene restituito solo valore di scambio

Le contraddizioni che ne derivano non hanno soltanto un interesse teorico, ma sono il riflesso delle difficoltà sorgenti dalla natura del rapporto immediato dello scambio semplice, mediante il baratto. Esse rispecchiano le impossibilità a cui conduce questa forma rudimentale di scambio e la rimozione di queste impossibilità si può trovare nel fatto che la proprietà di rappresentare il valore di scambio di tutte le altre merci viene trasferita ad un’altra merce speciale, il denaro[5]. Il denaro trova la sua determinazione più precisa nel prezzo, come mezzo di circolazione e come unità delle due determinazioni, come denaro reale che rappresenta tutta la ricchezza materiale. Ogni cosa utile come il ferro, la carta ecc., deve essere infatti esaminata da un duplice punto di vista: secondo qualità e quantità. Ciascuno di questi prodotti è un insieme di molte qualità ed è compito della storia scoprire questi diversi aspetti e quindi i molteplici modi di uso delle cose, come anche l’individuazione delle misure sociali per la quantità delle cose utili[6].

L’utilità di una cosa fa pensare che essa abbia un valore d’uso[7]: questa utilità è una determinazione delle qualità del corpo di una merce. Questo corpo della merce, come il ferro, il grano, il diamante ecc., è un valore d’uso, cioè un bene. La prima forma di proprietà così nel mondo antico come nel Medioevo è la proprietà tribale condizionata principalmente dalla guerra contro i romani, dall’allevamento presso i germani. Presso i popoli antichi, poiché più tribù coabitavano in una città, la proprietà tribale appare come proprietà di Stato e il diritto del singolo ad essa come mero possesso, che, come la proprietà tribale in generale, si limita tuttavia alla proprietà fondiaria. La proprietà privata vera e propria comincia presso gli antichi: presso i popoli uscenti dal Medioevo la proprietà tribale si evolve attraverso diversi stadi-proprietà: fondiaria feudale, proprietà mobiliare corporativa, capitale manifatturiero, fino al capitale moderno, condizionato dalla grande industria e dalla concorrenza universale, alla proprietà privata pura che si è spogliata di ogni parvenza di comunità e che ha escluso ogni influenza dello Stato sullo sviluppo della proprietà stessa. Alla proprietà privata moderna corrisponde lo Stato moderno che mediante le imposte è stato nel lungo periodo “comperato” dai detentori della proprietà privata, la quale, a causa del debito pubblico, è caduta interamente nelle loro mani e la cui esistenza ha finito col dipendere del tutto, nell’ascesa o nella caduta dei titoli di Stato in Borsa, dal credito commerciale assegnato dai detentori della proprietà privata, ovvero i borghesi. Per il fatto che non è più un ordine, la borghesia è costretta a organizzarsi nazionalmente, non più localmente, e a dare forma generale al suo interesse. Attraverso l’emancipazione della proprietà privata dalla comunità, lo Stato è pervenuto a un’esistenza particolare, accanto e al di fuori della società civile: esso non è altro che il tipo di organizzazione che i borghesi si danno in realtà per necessità, tanto verso l’esterno quanto verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente i propri privilegi. L’indipendenza dello Stato oggi non si trova più che in quei Paesi dove gli ordini, eliminati negli Stati più progrediti, esercitano ancora una funzione ed esiste un amalgama, per cui nessuna parte della popolazione può arrivare a dominare le altre[8].

Adam Smith, Sismondi e Ricardo affermano tutti che lo Stato esiste in virtù della proprietà privata, pensiero condiviso anche all’interno della coscienza comune[9]. Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i propri interessi comuni e in cui si riassume l’intera società civile di un’epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l’intermediario dello Stato e ricevono una forma politica. Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e, anzi, sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla libera volontà. Allo stesso modo, il diritto privato a sua volta viene ridotto a legge: esso, infatti, si sviluppa contemporaneamente alla proprietà privata dalla dissoluzione della comunità naturale[10].

Presso i Romani, lo sviluppo della proprietà privata e del diritto privato non ebbe ulteriori conseguenze industriali e commerciali, perché l’intero modo di produzione rimase lo stesso. Presso i popoli moderni, dove la comunità feudale fu dissolta dall’industria e dal commercio col sorgere della proprietà privata e del diritto privato, cominciò invece una nuova fase che portò ad un ulteriore sviluppo. La prima città che nel Medioevo ebbe un esteso commercio marittimo, Amalfi, elaborò anche il diritto marittimo[11]. Non appena l’industria e il commercio portarono avanti lo sviluppo della proprietà privata, dapprima in Italia e più tardi in altri Paesi, fu subito ripreso il perfezionato diritto romano elevandolo ad autorità. Quando più tardi la borghesia ebbe acquistato una tale potenza che i principi si incaricarono dei suoi interessi per rovesciare la nobiltà feudale, cominciò in tutti i paesi - in Francia nel secolo XVI - il vero e proprio sviluppo del diritto, il quale procedeva in tutti i Paesi, ad eccezione dell’Inghilterra, sulla base del diritto romano. Anche in Inghilterra dovettero essere poi introdotti i principi del diritto romano, specialmente per la proprietà mobiliare, per l’ulteriore elaborazione del diritto privato[12].

Nel diritto privato, i rapporti di proprietà esistenti sono espressi come risultato della volontà generale. Gli stessi ius utendi e abutendi[13] esprimono da una parte il fatto che la proprietà privata è diventata del tutto indipendente dalla comunità, dall’altra l’illusione che la proprietà privata stessa sia fondata sulla pura volontà privata, sul disporre arbitrariamente della cosa. Nella pratica, lo ius abutendi ha limiti economici assai determinati per il proprietario privato, se non vuole veder passare la proprietà in mani altrui, poiché in realtà il bene, considerato unicamente in rapporto alla sua volontà, non è affatto tale, ma soltanto nello scambio e indipendentemente dal diritto diventa proprietà reale. Questa illusione giuridica che riduce tutto alla pura volontà conduce necessariamente a questo: nello sviluppo dei rapporti di proprietà, ognuno può avere un titolo giuridico su una merce, senza però possederla realmente. Se, per esempio, la rendita di un terreno è annullata dalla concorrenza, il proprietario ha certamente titolo giuridico su di essa, insieme con lo ius utendi e abutendi, ma non possiede niente come proprietario fondiario, a meno che non possieda ancora capitale sufficiente per coltivare il suo terreno. Questa stessa illusione dei giuristi spiega come per essi e per ogni codice in genere sia contingente che degli individui entrino in rapporto fra loro, come per esempio coi contratti, e come questi rapporti si possano stringere o meno a piacere, e il cui contenuto dipende dall’arbitrio individuale dei contraenti. Ogni volta che lo sviluppo dell’industria e del commercio ha creato nuove forme di scambio (per esempio, con le compagnie di assicurazione), il diritto fu sempre costretto ad accoglierle fra i modi di acquistare la proprietà.

In conclusione di questo secondo capitolo, dunque, possiamo affermare di avere visto che la sovrastruttura è come un velo calato sulla storia che nasconde le reali cause e le motivazioni delle mutazioni e dei rivolgimenti storici. La struttura è la base vera e solida che si nasconde dietro questo velo: per rivelare la verità della struttura non basta comunque equiparare la sovrastruttura all’ideologia e la struttura all’economia, ma, come detto, serve un lavoro storiografico profondo e rigorosamente critico.




[1] K. Marx, F. Engels, La concezione materialistica della storia, cit. p. 162.

[2] Ivi, p. 179.

[3] K. Marx, Il capitale, cit., p. 53.

[4] Ivi, p. 54.

[5] Ivi, p. 90.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 105.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p.130.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ovvero, il diritto di usare e di consumare.

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