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Utopia e materialismo storico

 

Finora gli uomini hanno regolato i loro rapporti sulla base di idee che non sono altro che un loro stesso costrutto, come, per esempio, quella di Dio, che, secondo Marx, è un’invenzione della mente umana. Bisogna dunque liberarsi da queste chimere e da questi dogmi dell’immaginazione per ricercare invece il nesso tra la filosofia e la realtà esistente, il collegamento tra la critica e l’ambiente materiale[1].

I presupposti da cui partiamo non sono arbitrari e nemmeno dei dogmi; essi sono costituiti dagli individui reali, dalle loro azioni e dalle loro condizioni di vita, sia quelle che essi hanno già trovato sia quelle da loro trasformate e prodotte. Si tratta di presupposti constatabili per via empirica: il primo presupposto è l’esistenza di individui umani viventi, cioè innanzitutto bisogna constatare l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto con il resto della natura. Si possono dunque distinguere gli uomini dagli animali per numerosi fattori come la coscienza o la religione: essi, infatti, si distinguono dagli animali quando iniziano a produrre i loro mezzi di sussistenza, producendo i quali realizzano allo stesso tempo e indirettamente la loro vita materiale.

Citando Marx: «Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende anzitutto dalla natura degli stessi che essi trovano e che devono riprodurre. Il modo di produzione non si deve giudicare solo come riproduzione dell’esistenza fisica degli individui, anche perché esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, per estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato»[2]. Ancora: «Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, con ciò che producono e soprattutto con il modo in cui producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione, che appare con l’aumento della popolazione e presuppone a sua volta relazioni fra individui, influenzate dalla produzione»[3].

I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le proprie forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne: non soltanto il rapporto di una nazione con le altre, ma anche l’intera organizzazione interna di questa stessa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione può essere notato a partire dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro: essa, infatti, nasce anzitutto dalla separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con la differenziazione tra città e campagna. Un ulteriore sviluppo porta poi la divisione tra il lavoro commerciale e quello industriale e la posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati: quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni si manifestano nei rapporti fra diverse nazioni[4].

I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro corrispondono ad altrettante forme della proprietà. Come abbiamo già visto, la prima è quella di tipo tribale: essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell’allevamento del bestiame e attraverso una forma di proto-agricoltura. In questa fase, la divisione del lavoro è ancora poco sviluppata e non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia. Qui, l’organizzazione sociale corrisponde a quella famigliare: capi patriarcali della tribù, membri e schiavi. La schiavitù latente in famiglia si sviluppa con l’aumento della popolazione e dei bisogni, e con l’allargarsi delle relazioni esterne, con la guerra e il baratto[5].

La seconda forma è quella della proprietà della comunità antica e dello Stato, che ha origine dall’unione di più tribù in una città e in cui continua ad esistere la schiavitù. Accanto alla proprietà della comunità, inizia a svilupparsi la proprietà privata mobiliare e poi quella immobiliare. I membri dello Stato hanno soltanto il potere sui loro schiavi. L’intera organizzazione sociale fondata su questa base, e con essa il potere del popolo, decadono al momento in cui si sviluppa la proprietà privata immobiliare: la divisione del lavoro è più sviluppata ed è già presente la differenziazione fra città e campagna; più tardi si possono poi verificare l’antagonismo fra Stati che rappresentano l’interesse delle città e Stati che rappresentano gli interessi della campagna e, all’interno delle città stesse, la distinzione fra industria e commercio marittimo. Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi è dunque al suo completo sviluppo: con la proprietà privata, vi sono infatti quelle stesse condizioni che ritroveremo poi nella proprietà privata moderna in forma più estesa.

La terza forma è la proprietà feudale e degli ordini, che si sviluppa prevalentemente nel Medioevo e che pone al centro la campagna. Al contrario della Grecia e di Roma, lo sviluppo feudale comincia quindi su un terreno molto più esteso, grazie alla diffusione dell’agricoltura. Gli ultimi secoli dell’ormai decadente Impero Romano e la stessa avanzata da parte dei barbari distrussero una grande quantità di forze produttive; l’agricoltura cadde in abbandono, l’industria fu rovinata per mancanza di sbocco, il commercio intorpidito, la popolazione diminuita. Queste condizioni preesistenti e il modo in cui fu realizzata la conquista da parte dei barbari causarono, sotto l’influenza della costituzione militare germanica, lo sviluppo della proprietà feudale: come la proprietà tribale e la proprietà della comunità, anch’essa poggia su una collettività di piccoli contadini asserviti, alla quale si contrappone la classe direttamente produttrice degli schiavi[6].

Insieme al completo sviluppo del feudalesimo, compare anche la distinzione netta con le città: l’organizzazione gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla nobiltà il potere sui servi della gleba; questa organizzazione feudale era un’associazione opposta alle classi produttrici e ad essa corrispondevano nelle città la proprietà corporativa e l’organizzazione feudale dell’artigianato, in cui la proprietà consisteva principalmente nel lavoro del singolo individuo[7]. La necessità di associarsi contro la rapace nobiltà, il bisogno di mercati coperti comuni in un tempo in cui l’industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti e l’organizzazione feudale dell’intero paese portarono alle corporazioni. I piccoli capitali risparmiati a poco a poco dai singoli artigiani e il loro numero stabile in seno a una popolazione crescente fecero sviluppare il rapporto di garzone e apprendista.

Nell’età feudale, la proprietà principale consisteva da una parte nella proprietà fondiaria e nella manodopera servile che vi era legata, dall’altra nel lavoro personale che garantiva un piccolo capitale ai garzoni che si assoggettavano al datore di lavoro[8]. L’unificazione di vasti paesi in regni feudali era un bisogno tanto per la nobiltà terriera quanto per le città: l’organizzazione della classe dominante ebbe quindi al suo vertice un monarca in molte zone d’Europa. La produzione delle idee e delle rappresentazioni è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali vigenti tra gli uomini: le rappresentazioni e i pensieri degli uomini appaiono qui come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Con le parole di Marx:

 

Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale della religione e della metafisica di un popolo: sono infatti gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, delle loro idee, ecc., intendendo con “uomini” gli uomini reali e operanti, condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni materiali all’interno delle quali agiscono. Non bisogna fare riferimento a ciò che gli uomini dicono e immaginano per arrivare alla considerazione dell’uomo, ma si parte dagli uomini reali operanti e dal processo materiale della loro vita, così da spiegare poi anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita[9].

 

Secondo Marx, le immagini nebulose che si formano nella mente sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita: la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica non hanno storia o sviluppo, mentre gli uomini che danno vita alla loro produzione materiale e alle loro relazioni materiali trasformano, insieme a questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti dello stesso; come già detto, non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza[10]. I presupposti da cui parte la concezione materialistica della storia infatti sono gli uomini, non astrattamente isolati, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni materiali determinate: dove cessa la speculazione, inizia la scienza, la rappresentazione dell’attività pratica. Secondo questa concezione, la schiavitù non si può abolire senza la macchina a vapore né la servitù della gleba senza un’agricoltura migliorata. La liberazione è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata da condizioni storiche quali lo stato dell’industria, del commercio, dell’agricoltura e delle relazioni materiali. Il mondo sensibile che ci circonda, non sempre uguale a se stesso, bensì il prodotto dell’industria e delle condizioni sociali, è un prodotto storico: si tratta del risultato dell’attività di tutta una serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata sulle spalle della precedente, perfezionandone di volta in volta l’industria e le relazioni, fino a modificare l’ordinamento sociale in base ai mutui bisogni[11]. Come scrive Marx:

 

Gli oggetti della certezza sensibile sono dati solo attraverso lo sviluppo sociale, l’industria e le relazioni commerciali; ogni profondo problema filosofico si chiarisce con semplicità in un fatto empirico. La prima azione storica è la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa: si tratta di una condizione fondamentale di qualsiasi epoca storica, che, ancora oggi, deve essere compiuta ogni giorno semplicemente per garantire la sussistenza degli uomini. In secondo luogo, il soddisfacimento dei bisogni primari e l’azione del soddisfarli portano a nuovi bisogni. Il terzo rapporto che interviene fin dalle prime origini nello sviluppo storico risiede nel fatto che gli uomini cominciano a generare altri uomini, a riprodursi. Si tratta del rapporto fra uomo e donna, fra genitori e figli, ovvero la famiglia; essa, che da principio è l’unico rapporto sociale, diventa più tardi un rapporto subordinato. La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già come un duplice rapporto, naturale e sociale; infatti, un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre correlato con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anch’esso una forza produttiva[12].

 

La quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e la stessa storia dell’umanità deve dunque essere studiata in relazione alla storia dell’industria e dello scambio. Fin dall’origine vi è un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della produzione; si tratta di un legame che assume sempre nuove forme e, dunque, presenta una storia priva di quei non-sensi politici e religiosi che, si è detto, non sono altro che un derivato delle strutture economico-materiali.

Secondo la concezione materialistica della storia l’uomo ha una coscienza, ma anche questa non esiste fin dall’inizio come pura coscienza: il linguaggio è la coscienza reale, pratica che esiste anche per gli altri uomini, e il linguaggio come coscienza sorge dal bisogno e dalla necessità di rapporti con altri uomini. La coscienza è un prodotto sociale, come semplice coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all’individuo che prende coscienza di sé[13]. Allo stesso tempo, essa è coscienza della natura, la quale inizialmente si erge contro gli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in maniera puramente istintiva e dalla quale si lasciano dominare; è dunque una coscienza puramente animale della natura e, d’altra parte, coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti all’interno di una società.

La divisione del lavoro implica una serie di contraddizioni: la più grande divisione del lavoro materiale e intellettuale è la separazione fra città e campagna[14], che comincia col passaggio dalla barbarie alla civiltà. La città si caratterizza per la necessità dell’amministrazione, della polizia delle imposte, dell’organizzazione comunale e in generale della politica. L’antagonismo fra città e campagna esiste solamente con la proprietà privata e l’abolizione di questo antagonismo non può essere realizzata dalla semplice volontà degli individui, ma attraverso dei presupposti materiali imprescindibili; si sviluppa dunque quella divisione del lavoro che in origine era un immediato prodotto della divisione familiare dello stesso, fino a produrre spontaneamente per disposizione naturale, del bisogno o del caso. La divisione del lavoro diventa ancora più significativa nel momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e intellettuale. Con la suddivisione del lavoro subentra la realtà che l’attività spirituale e l’attività materiale tocchino a individui diversi e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro.

Essa implica la ripartizione ineguale sia per quantità sia per qualità del lavoro e dei suoi prodotti e porta allo sviluppo di quella proprietà che ha il suo germe nella famiglia, dove la donna e i figli sono schiavi dell’uomo. La schiavitù nella famiglia è la prima forma di proprietà e consiste nel disporre della forza lavoro altrui; con la divisione del lavoro è data anche la contraddizione fra l’interesse del singolo o della famiglia e l’interesse collettivo, che consiste nella dipendenza reciproca degli individui[15]. La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi è la società civile, la quale ha come presupposto e fondamento la famiglia semplice e quella composta. La società civile è il vero focolare e si nota quanto sia assurda ogni concezione della storia che si limita alle azioni dei capi e degli Stati e trascura i rapporti reali tra gli individui.

La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali e le forze produttive che le sono state trasmesse dalle generazioni precedenti: da una parte, essa continua in circostanze diverse l’attività che le è stata tramandata, mentre, dall’altra, modifica le vecchie circostanze con un’attività che nel frattempo è del tutto cambiata. Nella storia fino ad oggi è un fatto empirico che i singoli individui sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo, che è diventato sempre più grande e che, in ultima istanza, si rivela essere un vero e proprio mercato mondiale. La ricchezza spirituale reale dell’individuo, dunque, dipende interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali. Questa concezione della storia si fonda sui seguenti aspetti[16]:

 

- spiegare il processo reale della produzione, muovendo dalla produzione materiale della vita immediata;

- assumere come fondamento di tutta la storia la forma delle relazioni che sono connesse con quel modo di produzione e che da esso sono generate: ovvero, la società civile nei suoi diversi stadi, sia rappresentata nella sua azione come Stato, sia come punto a partire dal quale si spiegano le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, della religione, della filosofia morale ecc.;

- restare saldi costantemente sul terreno storico reale, non spiegando la prassi dall’idea, ma spiegando le formazioni di idee partendo dai rapporti materiali.

 

La somma delle forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come dato, è la base reale di ciò che i filosofi hanno considerato come sostanza ed essenza dell’uomo. Le altre concezioni della storia hanno puramente e semplicemente ignorato la base reale della stessa, oppure l’hanno considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico effettivo. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia: questa concezione ha visto nella storia soltanto l’azione di capi, di Stati, lotte religiose e lotte teoriche e ha in genere dovuto condividere l’illusione dell’epoca stessa. Quando un’epoca ritiene ad esempio di essere determinata da motivi puramente politici o religiosi, il suo storico accetta questa opinione. L’immagine e la rappresentazione che gli uomini si fanno della loro prassi reale viene trasformata nell’unica forza determinante e attiva che domina la vita e le relazioni materiali degli uomini[17].

La filosofia di Hegel rappresenta una forma pura di idealismo: la sua concezione è infatti religiosa e postula l’uomo come inizio da cui deriva la storia; l’uomo considerato nella sua produzione di fantasie religiose al posto della produzione reale dei mezzi di sussistenza e della vita stessa. Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee principali della società; cioè, la classe che si erge come potenza materiale dominante della società costituisce allo stesso tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone anche dei mezzi della produzione intellettuale e quindi ad essa sono assoggettate le idee degli uomini che si limitano alla lavorazione della terra e dei suoi prodotti. Le idee dominanti originano dai rapporti materiali dominanti, ovvero i rapporti materiali dominanti presi come idee; esse sono l’espressione di una specifica classe e sono dunque le idee della classe predominante.

Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra loro anche il primato sugli aspetti culturali. Poiché dominano come classe, essi caratterizzano un’intera epoca storica e lo fanno anche come produttori di idee, le quali a loro volta influenzano anche gli stessi modi di produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo.

Ad esempio, in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, la suddivisione dello stesso costituisce un elemento fondamentale. La divisione del lavoro, che è una delle dinamiche principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale: in questo modo, all’interno di una classe, una parte si presenta come l’insieme di pensatori, mentre altri manifestano nei loro confronti un atteggiamento più passivo. Questa scissione all’interno di una classe può far sviluppare una certa ostilità all’interno della stessa[18].

La più grande divisione del lavoro materiale e intellettuale è costituita dalla distinzione tra città e campagna. L’antagonismo tra città e campagna, come detto, comincia col passaggio dalla barbarie alla civiltà, dall’organizzazione in tribù allo Stato, dalla località alla Nazione. L’esistenza stessa della città implica immediatamente la necessità dell’amministrazione, della polizia delle imposte ecc., ovvero dell’organizzazione comunale e quindi della politica. La città si caratterizza come una specifica forma di concentrazione della popolazione, degli strumenti di produzione, del capitale, dei godimenti e dei bisogni. L’antagonismo fra città e campagna può sussistere solo nell’ambito della proprietà privata; il lavoro costituisce qui, ancora una volta, l’aspetto principale: la necessità del lavoro salariato nelle città, infatti, creò la plebe; in queste città, il capitale era un capitale naturale, che consisteva nell’abitazione, negli strumenti del mestiere e nella clientela naturale, ereditaria. Questo capitale non era valutabile in denaro, come quello moderno, per il quale è indifferente l’essere investito in questa o in quella cosa: la prima forma del capitale era invece legata al lavoro del possessore e si collocava all’interno di uno specifico ordine sociale[19].

La successiva estensione della divisione del lavoro fu la separazione di produzione e relazioni commerciali, dalla quale deriva la formazione di una classe speciale di commercianti[20]. Col traffico e con l’estensione del commercio, si sviluppa un’influenza reciproca fra produzione e scambio: dipende infatti unicamente dall’estensione delle relazioni commerciali se le forze acquisite in una località, verranno o meno perdute con lo sviluppo successivo. La divisione del lavoro fra le diverse città ebbe come prima conseguenza il sorgere delle manifatture, quei rami di produzione scaturiti dal sistema corporativo. Il lavoro basato sull’utilizzo di nuove tecniche ingegneristiche, o di altre tipologie di macchine industriali, conobbe un enorme sviluppo[21]: per esempio, la tessitura, che fino ad allora era esercitata in campagna dai contadini come attività secondaria, fu il primo lavoro che in seguito all’estensione del commercio conobbe un ulteriore sviluppo, anche per quanto riguarda la tecnologia da essa impiegata. Mentre la borghesia conservò ancora interessi nazionali, la grande industria creò una classe che ebbe il medesimo interesse in tutte le nazioni[22].

Questa contraddizione fra le forze produttive e la forma di relazioni spesso fu motivo di rivolte o di vere e proprie rivoluzioni all’interno dello sviluppo della storia: secondo questa concezione, infatti, tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra forze produttive e la forma delle relazioni, ma per provocare degli attriti, non è necessario che queste contraddizioni siano portate all’estremo. La concorrenza isola gli individui, non soltanto i borghesi, ma anche e soprattutto i proletari, mettendoli gli uni di fronte agli altri, benché li raccolga insieme; nel Medioevo, per esempio, in ogni città i cittadini erano costretti ad unirsi contro la nobiltà delle campagne. I singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe: questo fenomeno è identico alla sussunzione dei singoli individui sotto la divisione del lavoro e può essere eliminato soltanto mediante il superamento della proprietà privata[23].

Questa sussunzione degli individui a classi determinate non può essere superata se non dalla formazione di una classe che non abbia più da imporre alcun interesse particolare. La trasformazione delle forze personali in forze oggettive, provocata dalla divisione del lavoro, non può essere abolita semplicemente attraverso un’operazione intellettuale, ma soltanto se gli individui sussumono nuovamente sotto sé stessi quelle forze oggettive e abolendo la divisione del lavoro. Nella comunità complessa, ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le proprie disposizioni, per cui in questa comunità diventa possibile la libertà personale[24].

Nel corso dello sviluppo storico, e proprio attraverso l’indipendenza inevitabile che entro la divisione del lavoro acquistano i rapporti sociali, emerge una differenza tra la vita di ciascun individuo, in quanto essa è personale ed è sussunta sotto qualche ramo di lavoro e sotto le relative condizioni. Come scrive Marx: «La differenza fra l’individuo personale e l’individuo come membro di una classe e la casualità delle condizioni di vita per l’individuo nascono soltanto con la comparsa delle classi sociali, che a sua volta sono un prodotto della borghesia»[25]. La concorrenza e la lotta degli individui tra loro produce e sviluppa questa causalità. Idealmente, sotto il dominio della borghesia, gli individui sono più liberi di prima, perché per loro le loro condizioni di vita sono causali, ma in realtà sono meno liberi perché subordinati a una forza oggettiva.

La differenza si manifesta particolarmente nell’antagonismo fra borghesia e proletariato. Ancora, sempre con le parole di Marx: «Quando l’ordine della popolazione urbana e le corporazioni si affermarono contro la nobiltà delle campagne, le loro condizioni di vita, la proprietà mobiliare e il lavoro artigianale, che erano già esistiti allo stato latente prima che si separassero dal vincolo feudale, apparvero come qualcosa di positivo, che veniva fatto valere contro la proprietà fondiaria feudale»[26]. Nel caso dei proletari, la loro condizione di vita, il lavoro, e quindi tutto l’insieme delle condizioni di esistenza della società odierna sono diventati qualche cosa di condizionato, su cui i singoli proletari non hanno alcun controllo. La contraddizione tra la personalità del singolo proletario e la condizione di vita che gli è imposta si manifesta al proletario stesso, soprattutto perché egli è stato sacrificato fin dalla giovinezza e non ha a disposizione quella possibilità di migliorare la propria condizione, entrando a far parte di una classe sociale superiore.

Non va dimenticato che, nella precedente società feudale, la necessità dell’esistenza dei servi della gleba e l’impossibilità di un’economia generale (che comportava la ripartizione parcellare fra i servi), ridussero ben presto le obbligazioni dei servi verso il signore feudale ad una media di versamenti in natura e di corvées; questo cambiamento permetteva al servo di accumulare proprietà mobiliare e quindi facilitava la sua evasione dalla proprietà del signore, aprendogli la possibilità di realizzarsi come cittadino: ciò portò alla nascita di gradi diversi tra i servi, alcuni dei quali potevano ambire a diventare dei veri e propri contadini[27]. Qui appare chiaro che i contadini-servi in possesso di un mestiere avevano più di tutti la possibilità di acquistarsi una proprietà mobiliare; al contrario, i servi della gleba volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le proprie condizioni di esistenza, aspirando soltanto al lavoro libero. I proletari, invece, per affermarsi personalmente dovevano superare la condizione di esistenza nella quale si erano trovati fino a quel momento attraverso il lavoro. Essi si trovarono quindi in antagonismo diretto anche con lo Stato, forma nella quale gli individui della società si erano dati finora un’espressione collettiva, e avrebbero dovuto rovesciarlo per affermare la loro personalità.

Come scrive Marx: «La differenza fra individuo personale e individuo contingente non è una distinzione concettuale, ma un vero e proprio fatto storico»[28]. Non si tratta dunque di due individui diversi, ma è importante sottolineare che la prospettiva da cui si guarda lo stesso individuo cambia e sono concettualmente differenti: l’idea che una persona ha di sé, infatti, è diversa in un certo senso dall’immagine che si ha di quella stessa persona nel contesto delle sue oggettive condizioni materiali. Questa distinzione ha un senso diverso in tempi diversi: si tratta di una distinzione che non dobbiamo individuare noi per ciascuna epoca, ma che proprio ogni epoca realizza tra i diversi elementi che trova già costituiti e non sulla base di un concetto, ma costretta dalle collisioni materiali della vita. Dunque, la forma delle relazioni tra le forze produttive appare come contingente all’epoca successiva e quindi costituisce uno degli elementi tramandati ad essa dall’epoca precedente.

Il rapporto fra le forze produttive e la forma di relazioni si esplica attraverso l’occupazione o l’attività degli individui: la forma fondamentale dell’attività infatti è quella materiale, dalla quale dipende ogni altra forma intellettuale, politica, religiosa ecc. La diversa configurazione della vita materiale è determinata volta per volta dai bisogni già sviluppati e tanto la produzione quanto il soddisfacimento di questi bisogni influiscono sulla caratterizzazione di uno specifico periodo storico. Le condizioni sotto le quali gli individui hanno relazioni tra loro sono condizioni che appartengono alla loro singolarità, condizioni sotto le quali soltanto questi individui determinati possono produrre la loro vita materiale. Esse sono dunque le condizioni della loro manifestazione personale e da questa sono prodotte[29]. La determinata condizione nella quale essi producono corrisponde alla loro limitazione reale, alla loro esistenza unilaterale, che si manifesta soltanto quando appare la contraddizione e quindi esiste solo per le generazioni posteriori. Allora questa condizione appare come un intralcio causale e si attribuisce anche all’epoca precedente la coscienza che essa fosse tale. Queste diverse condizioni, che appaiono dapprima come condizioni della manifestazione personale e più tardi come un intralcio, formano in tutto lo sviluppo storico una serie coerente di forme di relazione, la cui connessione consiste nel fatto che, al posto della forma di relazione precedente, ne viene introdotta una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione personale degli individui[30]. Questa forma diventa poi un intralcio e quindi viene sostituita con un’altra: poiché ad ogni stadio queste condizioni corrispondono allo sviluppo contemporaneo delle forze produttive, la loro storia è altresì la storia delle forze produttive che si sviluppano e che sono riprese da ogni nuova generazione, e, pertanto, è la storia dello sviluppo delle forze degli individui stessi[31]. Siccome questo sviluppo procede per via naturale e non è subordinato a un piano complessivo di individui liberamente associati, esso muove da diverse località, tribù, nazioni, branche di lavoro ecc., ciascuna delle quali all’inizio si sviluppa indipendentemente e non entra che a poco a poco in collegamento con le altre.

Questo processo procede assai lentamente, in quanto i diversi stadi e interessi non vengono mai completamente superati, continuando a trascinarsi per secoli accanto ad esso. All’interno di una nazione le persone hanno sviluppi diversi, non rigorosamente collegati alle loro condizioni finanziarie e ai loro interessi anteriori, e contemporaneamente la peculiare forma di relazioni viene già soppiantata da quella appartenente ad un interesse posteriore, rimanendo ancora a lungo comunque in possesso di un potere tradizionale nella comunità apparente che intanto si è resa indipendente di contro agli individui. Ciò spiega perché, in rapporto a singoli punti che permettono una sintesi più generale, la coscienza possa apparire talvolta più avanzata rispetto alla situazione materiale contemporanea.

Non si è totalmente nel falso, se si afferma che, fino a qui, la storia si è caratterizzata come un processo all’interno del quale l’azione fondamentale si identifica nell’atto del “prendere”[32]: i barbari prendono l’Impero romano e con questa conquista si spiega il passaggio dal mondo antico al feudalesimo. Di questo “prendere” importa sapere se la nazione che viene assoggettata ha sviluppato forze produttive industriali, come è il caso presso i popoli moderni, o se le sue forze produttive riposano principalmente sulla sola unione e sulla comunità. Il prendere è inoltre condizionato dall’oggetto: non si può prendere il patrimonio di un banchiere senza sottostare alle condizioni di produzione e di scambio. Il prendere ha inoltre un termine dopo il quale bisogna iniziare nuovamente a produrre: da questa necessità, che si manifesta assai presto, segue che la forma di comunità adottata dai conquistatori insidiatisi in un Paese corrisponde al grado di sviluppo delle forze produttive ivi incontrate[33]. Ciò spiega il fatto che, nel periodo successivo alle invasioni barbariche, i conquistatori accettarono prestissimo lingua, cultura e costumi dai conquistati.

Il feudalesimo non fu affatto portato dai Germani, ma ebbe origine durante la stessa conquista attraverso l’organizzazione militare e dell’esercito. Nella grande industria e nella concorrenza, tutte le condizioni di esistenza, le limitazioni e le restrizioni degli individui sono fuse insieme nelle due forme più semplici: proprietà privata e lavoro. Col denaro ogni forma di relazione e le relazioni stesse sono considerate causali per gli individui. Dipende dalla stessa natura del denaro se ogni relazione finora esistita non è stata altro che relazione degli individui sotto condizioni determinate. Queste condizioni si riducono a due: lavoro accumulato, o proprietà privata, e lavoro effettivo. La proprietà privata si sviluppa nella necessità dell’accumulazione e all’inizio conserva ancora la forma della comunità, ma successivamente si avvicina sempre più alla forma moderna della proprietà privata[34]. La divisione del lavoro implica anche la divisione delle sue condizioni, degli strumenti e dei materiali e con essa il frazionamento del capitale accumulato fra i diversi proprietari, e quindi la separazione fra capitale e lavoro e le diverse forme della proprietà stessa[35]. Quanto più la divisione del lavoro si perfeziona e l’accumulazione aumenta, tanto più si accentuano anche quelle separazioni. Le forze produttive, dunque, appaiono come completamente indipendenti e svincolate dagli individui, come una realtà a parte accanto agli individui. Il fondamento di ciò si nota dal fatto che le loro forze esistono in una condizione di frazionamento e di opposizione reciproca, caratterizzandosi dunque come forze reali solo nelle relazioni tra questi individui[36]. L’unico nesso che ancora li lega alle forze produttive e alla loro stessa esistenza è il lavoro; ma se gli individui partono da se stessi, come può accadere che i rapporti si rivolgano contro di loro? Che le forze della loro stessa vita diventino dominanti? Secondo Marx, la divisione del lavoro è la causa di queste contraddizioni[37].




[1] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 80.

[2] Ivi, p. 84.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 84.

[5] Ivi, p. 85.

[6] Ivi, p. 86.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 87.

[10] Ivi, p. 88.

[11] Ivi, p. 90.

[12] Ivi, p. 93.

[13] Ivi p. 93.

[14] A.R. Calabrò, I caratteri della modernità: parlano i classici, Liguori editore, Napoli, 2004, p. 86.

[15] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 95.

[16] Ivi, p. 100.

[17] Ivi, p. 101.

[18] Ivi, p. 105.

[19] Ivi p. 110.

[20] Ivi, p. 111.

[21] Ivi, p. 112.

[22] Ivi, p. 117.

[23] Ivi, p. 119.

[24] Ivi, p. 120.

[25] Ibidem.

[26] Ivi, p. 121.

[27] Ibidem.

[28] Ivi, p. 123.

[29] Ivi, p. 123.

[30] Ibidem.

[31] Ivi, p. 124.

[32] Ibidem.

[33] Ivi, p. 125.

[34] Ivi, p. 126.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, p. 127.

[37] Ivi, p. 132.

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